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Dalla Voce del Popolo sul mondo carcere (del 24 settembre 2020)

   Ci  siamo  scordati  del  carcere?

Passati i mesi più duri della pandemia il viaggio in un mondo che, dopo le proteste dei primi giorni del lockdown, è stato dimenticato dai media

                                                                                                         di Massimo Venturelli

         È stato detto più volte che tra le tante sofferenze che la pandemia da Covid-19 ha portato con se, oltre a quella della morte e della malattia, c’è anche quella della solitudine. L’isolamento sociale a cui tutti sono stati costretti per tante settimane e che abbiamo superato (non senza conseguenze che oggi cominciano a essere visibili) ha lasciato su tante persone un segno, una traccia indelebile.

La sensazione di sentirsi soli, abbandonati, è una di quelle che non si dimenticano in fretta. Piano piano la morsa, però, si è allentata un po’ per tutti, tranne per che per il mondo del carcere, ancora isolato per quello che riguarda i contatti con l’esterno. Un mondo che, tra l’altro, sembra essere diventato invisibile. Perché se in questi mesi non è mancata l’attenzione, magari anche solo per la cronaca “sanitaria” per altri luoghi della sofferenza come gli ospedali, le Rsa e le strutture di accoglienza per i senza fissa dimora, di carceri si è parlato in avvio del lockdown per le violente proteste andate in scena in alcune strutture. E poi più nulla! Questa situazione è stata affrontata con Francesca Paola Lucrezi, direttrice delle strutture carcerarie di Brescia e Verziano.

Per le carceri bresciane quello del lockdown che tempo è stato?

Quelli che abbiamo vissuto sono stati mesi difficilissimi. In un ambiente ristretto e chiuso come il nostro, separato dall’esterno, un maremoto come quello che abbiamo vissuto è stato amplificato. È stato difficile far capire ai detenuti, nonostante avessero informazioni costanti date dai giornali, dalla televisione, cosa realmente stava accadendo fuori. Anche per persone abituate alla reclusione non è stato facile comprendere e accettare le limitazioni via via imposte. Non toccando, fortunatamente con mano, la gravità di quanto stava accadendo, inizialmente non hanno compreso la ragione di certe scelte. Ma con il dialogo e la disponibilità al confronto di tutte le componenti della comunità carceraria, a partire dall’autorità giudiziaria, dalla Garante dei diritti dei detenuti che, in una occasione ha potuto incontrare una rappresentanza dei detenuti, si è riusciti a far comprendere la realtà e la necessità di mettere in atto misure che scongiurassero l’ingresso del virus a Verziano.

La pandemia ha portato un cambiamento nel vostro lavoro?

Il nostro lavoro ha conosciuto uno stravolgimento totale. Siamo stati completamente assorbiti dalla pandemia; abbiamo dovuto attrezzarci innanzitutto per capire cosa stava succedendo e quali erano le conseguenze, per comprendere come applicare le direttive e le normative che il Governo, la Regione e anche l’amministrazione carceraria andavano emanando a ritmi vertiginosi e che a volte sembravano in contraddizione l’una con le altre. Il punto di forza per fare fronte a tutto questo è stata la coesione che si è creata sin da subito tra il personale e tra questo e i detenuti. 

Tutto questo ha permesso di fermare il virus ai cancelli di Verziano?

Fortunatamente sì. Abbiamo avuto pochissimi casi, che sono stati prontamente isolati, tra il personale. Per quanto riguarda i detenuti, in tutto questo periodo abbiamo avuto solo tre casi di positività al virus, per altro tutti asintomatici, che non hanno creato focolai interni, perché prontamente isolati grazie anche alla collaborazione della sanità penitenziaria che ci è stata e continua a esserci a fianco. Abbiamo potuto contare anche sulla presenza del personale sanitario di Medici senza frontiere, grazie a un progetto voluto dal Provveditorato regionale lombardo. Ci hanno consigliato al meglio rispetto alle procedure da adottare. Abbiamo fatto tamponi a tappeto per cercare eventuali casi di positività anche dove non c’erano segni evidenti della presenza del virus.

Il periodo di isolamento forzato a cui il carcere è stato costretto finirà con l’incidere su tutti quei legami stretti nel corso degli anni con il mondo esterno?

No, i rapporti consolidati che hanno alle spalle una lunga storia non sono stati intaccati dal lockdown.Penso al mai interrotto rapporto con il Tribunale di inviare tanti detenuti a misure alternative. Penso al dialogo mai interrotto con il mondo del Terzo settore che, anche nei momenti più bui, ha messo a disposizione risorse, anche proprie, per rendere possibile l’uscita dal carcere a chi era nelle condizioni di potere usufruire di questa misura. In questi mesi, poi, nonostante la sospensione di tanti progetti, non è mai venuta meno la vicinanza di tante persone legate alla realtà di Verziano.

Quale eredità lascia la pandemia al mondo del carcere?

Credo che un’eredità da non perdere sia quella della digitalizzazione. Abbiamo scoperto che tante cose che si pensavano impossibili da realizzare all’interno degli istituti, sono state utili. Penso alle videochiamate che hanno permesso ai detenuti di restare in contatto con i familiari, o al sistema della didattica a distanza usata per i percorsi scolastici, ai colloqui via internet con i volontari… questo ha aperto una strada. L’errore più grande, una volta tornati alla normalità, sarebbe quella di dimenticarsene.