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Luisa Ravagnani. Detenuti garantiti anche nel tempo della pandemia

Luisa Ravagnani, nominata dal consiglio comunale di palazzo Loggia nel 2015 garante dei diritti delle persone private della libertà personale, e la figura che anche nei mesi del lockdown ha fatto da ponte tra i detenuto e il mondo esterno che, al di là dei legittimi interessi di famigliari e del volontariato che opera nelle strutture carcerarie, sembra essersi dimenticato di un universo che, anche solo per collocazione fisica, è parte della città. “Quelli che sono venuti con l’arrivo della pandemia – racconta – sono stati, per chi vive la dimensione del carcere, mesi di grandi difficoltà. Tutte quelle che erano le abitudini e le attività che si svolgevano all’interno delle due strutture bresciane sono state soppresse. L’assenza di ogni contatto con il mondo esterno e con le persone che quotidianamente entravano in carcere per progetti e iniziative di volontariato ha di fatto privato i detenuti di una finestra, di uno spazio di dialogo con il mondo che sta fuori”. L’aspetto che ha fatto maggiormente soffrire i detenuti, però, è stato il taglio netto di ogni contatto “dal vivo con i familiari”. Solo l’attivazione delle videochiamata ha in parte alleviato il dolore. I repentini cambiamenti imposti dal lockdown si sono fatti sentire anche sul modo con cui Luisa Ravagnani intepreta il suo ruolo di garante.

“Il venire meno degli incontri con i detenuti – ricorda – ha intensificato quelli attraverso la posta elettronica o il ricorso, in caso di bisogno, alla mediazione degli operatori carcerari”.

Molto più intensi si sono fatti invece i rapporiti con quei denuti che stavano vivendo esperienze alternative al carcere, rese più difficili dalla pandemia, e quelli con le famiglie che stavano fuori dal carcere ed erano preoccupate per la situazione dei loro cari.

“Chi ha vissuto il lockdown dentro il carcere – continua ancora la Garante – ha compreso sin da subito che le misure adottate andavano unicamente nella direzione di una maggior tutela della loro salute”. Non a caso nelle strutture bresciane non si sono registrare quelle proteste esplose anche in forma violenta in altre carceri. Questo, per Luisa Ravagnani, è stato possibile anche per la disponibilità dimostrata dall’amministrazione penitenziaria e dalla magistratura di sorveglianza nell’accogliere, nei limiti del possibile, le esigenze espressa dai detenuti. (m.v.)

 

Don Stefano Fontana. Una fede alimentata dal contatto con l’umanità

Don Stefano Fontana da un anno circa è vice cappellano del carcere di Brescia. Conosce bene quindi la vita del carcere.

Come ha vissuto il carcere questo tempo di Covid?

È stato come per tutti un cambiamento di vita forte. L’accesso al carcere ancora adesso è limitatissimo, i volontari non possono entrare. A oggi possiamo entrare solo io e don Adriano, che è il cappellano. Già per chi è dentro è un momento di solitudine, perché il carcere è solitudine forte, è lockdown. Anche chi sta fuori con il Covid ha sperimentato cosa vuol dire passare 24 ore all’interno di uno stesso edificio. Per loro sono 24 ore all’interno di una stessa cella. Il carcere con il Covid è diventato ancora più duro.

Cosa manca di più ai carcerati?

La cosa che è mancata di più è il rapporto con l’esterno, con i propri parenti. Anche se qui sono stati bravi ad attivare subito un collegamento internet per le videochiamate. Questa è una cosa che tiene un pò in vita i carcerati mantenendo la relazione con i parenti. È una soluzione cha ha stemperato le paure. Da fuori viene quella carica che permette di vivere dentro.

Come cappellani che attività svolgete?

Noi facciamo l’attività della parrocchia per i cristiani che vivono in carcere. La catechesi tre volte alla settimana, le confessioni, i colloqui, la Messa la domenica, e poi c’è tutto il percorso di accompagnamento spirituale per chi sta facendo un cammino di rinascita. La questione per noi è vivere questa Chiesa scomoda che va in carcere, che dà fastidio alla mentalità diffusa, sapendo che la ragione per cui siamo lì è quella di passare da una giustizia retributiva a una riparativa. La pastorale che facciamo ha lo scopo di riuscire a dare una risposta al male attraverso la fede cristiana. Che passa dalla consapevolezza del male fatto, per avviare un cammino di rinascita.

C’è riscontro a questa azione?

Si. Personalmente trovo molta fede in carcere, nutrita dal contatto con l’umanità che c’è lì, siamo tutti nudi in carcere. Sono contento di fare questa pastorale invisibile: in questa invisibilità vedo sia l’umanità, che la fede in Gesù Cristo. E credo che anche la comunità fuori dovrebbe interessarsi di più di questa esperienza di fede e vita sociale, e creare un ponte con il carcere. Per dare una speranza a chi è dentro e contribuire a un cammino di rinascita. In carcere ci sono esseri umani come noi.

Sergio Arrigotti